Hanno scritto di Ben Ormenese:
Leopoldo Rodriguez Alc ade, C. Aliprando, M. Alzetta, Giovanna Barbero, Gino Benedetti, Cristoph Bertsch, Carlo Bonacina, Joan Bucklew, Franco Cajani, Luciano Caramel, Leonardo Conti, Maria D’Orlando, Juan Delgado, Marina Dorigo, Elda Fezzi, Pedro Fiori, Mario Ghilardi, Guglielmo Gigli, Giovanni Granzotto, Mario Lepore, Alberto Longa, Arturo Manzano, Dino Marangon, Pieraldo Marasi, Giuseppe Marchetti, Corrado Marsan, Leone Minassian Aurelio Natali, Pardi, Franco Passoni, Mario Portalupi, Beatrice Rossi Jost, Rinaldo Sandri, Carlo Segala, Luigi Seravalli, Mario SIlbani, Jole Simeoni Zanolo, Ettore Stefini, Cecile Toumarinson, Gino Traversi, Dino Villani, Cuca Ysart, P. Zanchi

Estratto da “ Ben Ormenese, il Sacile”
Di Leonardo Conti

Sono passati dodici anni dalla prima volta che sono venuto a Sacile per incontrare Ben Ormenese, e ho già raccontato altrove della forte emozione che mi colse entrando in uno studio risonante di solitudine e rimasto inviolato per quasi venti anni. Decine di opere si pararono davanti ai miei occhi, ricoperte dall’inesorabile polvere del tempo e potenti come arcani talismani. Severe sculture totemiche si ergevano padrone della verticalità e del silenzio, infinitesimali nelle loro modularità come grattacieli, magiche come antichissimi dèi sfuggiti alla condanna del tempo.
Fui preso da un entusiasmo e da un furore incontrollabili, sotto uno sguardo così pacato e silenzioso dell’artista da non sembrare neppure presente; tuttavia, poco dopo, mi portò in un ampio e oscuro scantinato, dove conservava accatastate alcune tra le opere degli anni Sessanta e Settanta più straordinarie che avessi mai visto. Le osservai a lungo, girandole e rigirandole tra le mani con religiosa attenzione; ne constatai le date prodigiose e nella mente febbrile rividi, come in un caleidoscopico archivio, le immagini delle opere di molti tra coloro che avevano posto le basi per l’uscita dell’arte internazionale dalle forme primarie della Minimal Art. Constatai che Ormenese, dopo la metà degli anni Sessanta, aveva già prodotto opere perfettamente innervate nelle forze dell’ambiente circostante, e mi resi conto che in quel momento io rappresentavo, involontariamente, la forza della storia venuta ad accogliere un figlio prediletto, sfuggito sino ad allora al suo ritmo incessante. A tutti i nomi illustri, che già popolavano quella storia, mi convinsi che andava aggiunto il nome di Ben Ormenese. E già sapevo quanto è falso il detto
“il tempo è gentiluomo”: sapevo che ogni artista, di fronte alla storia, vive su un piano oscillante tra grandezza e oblio, ma molto più sbilanciato verso quest’ultimo.

Leopoldo Rodriguez Alc ade, C. Aliprando, M. Alzetta, Giovanna Barbero, Gino Benedetti, Cristoph Bertsch, Carlo Bonacina, Joan Bucklew, Franco Cajani, Luciano Caramel, Leonardo Conti, Maria D’Orlando, Juan Delgado, Marina Dorigo, Elda Fezzi, Pedro Fiori, Mario Ghilardi, Guglielmo Gigli, Giovanni Granzotto, Mario Lepore, Alberto Longa, Arturo Manzano, Dino Marangon, Pieraldo Marasi, Giuseppe Marchetti, Corrado Marsan, Leone Minassian Aurelio Natali, Pardi, Franco Passoni, Mario Portalupi, Beatrice Rossi Jost, Rinaldo Sandri, Carlo Segala, Luigi Seravalli, Mario SIlbani, Jole Simeoni Zanolo, Ettore Stefini, Cecile Toumarinson, Gino Traversi, Dino Villani, Cuca Ysart, P. Zanchi

Estratto da “ Ben Ormenese, il Sacile”
Di Leonardo Conti

Sono passati dodici anni dalla prima volta che sono venuto a Sacile per incontrare Ben Ormenese, e ho già raccontato altrove della forte emozione che mi colse entrando in uno studio risonante di solitudine e rimasto inviolato per quasi venti anni. Decine di opere si pararono davanti ai miei occhi, ricoperte dall’inesorabile polvere del tempo e potenti come arcani talismani. Severe sculture totemiche si ergevano padrone della verticalità e del silenzio, infinitesimali nelle loro modularità come grattacieli, magiche come antichissimi dèi sfuggiti alla condanna del tempo.
Fui preso da un entusiasmo e da un furore incontrollabili, sotto uno sguardo così pacato e silenzioso dell’artista da non sembrare neppure presente; tuttavia, poco dopo, mi portò in un ampio e oscuro scantinato, dove conservava accatastate alcune tra le opere degli anni Sessanta e Settanta più straordinarie che avessi mai visto. Le osservai a lungo, girandole e rigirandole tra le mani con religiosa attenzione; ne constatai le date prodigiose e nella mente febbrile rividi, come in un caleidoscopico archivio, le immagini delle opere di molti tra coloro che avevano posto le basi per l’uscita dell’arte internazionale dalle forme primarie della Minimal Art. Constatai che Ormenese, dopo la metà degli anni Sessanta, aveva già prodotto opere perfettamente innervate nelle forze dell’ambiente circostante, e mi resi conto che in quel momento io rappresentavo, involontariamente, la forza della storia venuta ad accogliere un figlio prediletto, sfuggito sino ad allora al suo ritmo incessante. A tutti i nomi illustri, che già popolavano quella storia, mi convinsi che andava aggiunto il nome di Ben Ormenese. E già sapevo quanto è falso il detto
“il tempo è gentiluomo”: sapevo che ogni artista, di fronte alla storia, vive su un piano oscillante tra grandezza e oblio, ma molto più sbilanciato verso quest’ultimo.